Home » Contributi dei soci » La psicoterapia interpersonale per il paziente borderline

A cura di Silvio Bellino, Chiara Brunetti

Centro per i disturbi di Personalità, Clinica Psichiatrica 1, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino

La psicoterapia interpersonale (IPT), sviluppata in origine per il trattamento della depressione maggiore (Klerman et al., 1984), si sviluppa sulla relazione causale e biunivoca tra dimensione interpersonale e affettività. Di orientamento sostanzialmente medico, attribuisce al paziente depresso un temporaneo ruolo di malato, concependo il disturbo psichiatrico come una malattia sviluppatasi all’interno di un ambiente relazionale problematico e insostenibile. Il miglioramento dell’umore si configura come conseguenza della costruzione di relazioni sociali più stabili e funzionali.

Negli anni l’IPT è stata adattata a un numero sempre maggiore di disturbi psichiatrici, tra questi il disturbo borderline di personalità (DBP) (Markowitz, 2006). Il DBP si caratterizza per una pervasiva e cronica instabilità, che si presenta sotto forma di alterazioni dell’affettività, dell’impulsività, delle relazioni interpersonali e di disturbi dell’identità.

La teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969, 1973, 1988) spiega la relazione tra dinamiche sociali, impulsività e umore e costituisce secondo alcuni Autori il razionale dell’impiego dell’IPT nel trattamento del DBP. Relazioni instabili e inconsistenti con le figure di accudimento nei primi due anni di vita impediscono lo sviluppo della capacità di introiettare, e successivamente evocare, l’immagine di un altro rassicurante. Il bambino cresce pertanto intollerante alla solitudine ed estremamente richiedente nei confronti dell’altro, dal quale cerca di ricevere quella rassicurazione e senso di contenimento che non riesce a rievocare da sé (Adler e Buie, 1979). Relazioni distorte con le figure accudenti determinano la formazione di stili di attaccamento insicuri, ansiosi o disorganizzati, impedendo al bambino di acquisire sicurezza e indipendenza. Egli infatti, naturalmente portato a instaurare relazioni di attaccamento con le figure di riferimento, mette in atto strategie comportamentali volte ad assicurarsene la vicinanza (Bowlby, 1969, 1973, 1988). Nel caso dei pazienti borderline, tali comportamenti interpersonali, instabili e ambivalenti, si configurano sotto forma di un attaccamento disorganizzato (Ainsworth, 1978; Main e Solomon, 1990).

I problemi nelle relazioni interpersonali che contraddistinguono il quadro clinico del distrbo borderline hanno comportato in ambito psicoterapeutico un progressivo spostamento dell’attenzione dall’insight del paziente alla relazione tra paziente e terapeuta (Gunderson, 1996). Si è delineato infatti un modello di “psicologia a due” (Langs, 1976), all’interno del quale le reazioni intersoggettive e l’esperienze terapeutica dell’essere accettato e compreso acquistano centralità (Gill, 1979; McLaughlin, 1981). All’interno di questo quadro di riferimento teorico, le psicoterapie proposte per il DBP sono ritenute efficaci sulla base di alcuni fattori generali. Si tratta infatti di interventi a lungo termine, strutturati e con un focus ben delimitato, che prevedono un ruolo attivo del terapeuta, volto al consolidamento della compliance e alla promozione di un forte legame di attaccamento con il paziente. L’IPT si inserisce in questo filone di sviluppo della psicoterapia e si distingue dagli altri modelli perché basa la sua efficacia su fattori specifici correlati all’azione su aree problematiche interpersonali.

Considerate le caratteristiche cliniche e psicopatologiche del DBP, Bateman ha recentemente suggerito alcune modifiche strutturali dell’IPT riguardanti l’alleanza terapeutica, la struttura della terapia, la gestione dei comportamenti autolesivi, la durata e la fine del trattamento e soprattutto il focus interpersonale (Bateman, 2012).

Per Bateman il ruolo principale della psicoterapia diventa quello di fornire un modello di relazione empatica e validante che costituisca una matrice di attaccamento sicuro e consenta l’introiezione di un oggetto rassicurante (Bateman, 2012). Attraverso una rielaborazione dei processi psichici sottesi alle relazioni sociali, inoltre, il paziente può comprendere e analizzare come queste condizionino in modo fondamentale la propria affettività e i propri comportamenti (Bateman e Fonagy, 2004; Bateman 2012). Il setting deve essere strutturato e mantenuto su un focus interpersonale e deve essere costantemente indirizzato a consolidare l’alleanza terapeutica. Nelle prime sedute il terapeuta comunica la diagnosi e la discute con il paziente mettendone in luce soprattuto le problematiche relazionali. Illustrando al paziente la metodologia dell’approccio interpersonale si cerca di coinvolgerlo emotivamente ed attivamente nella costruzione di una stabile alleanza terapeutica.

Attraverso la ricostruzione delle esperienze interpersonali, il terapeuta mette in luce il pattern relazionale del paziente, riconducendolo a un particolare stile di attaccamento. L’inventario delle relazioni presenti e passate può infatti evidenziare l’alternanza tra modalità più attivanti e modalità più distanzianti di attaccamento (Bateman, 2012). I pazienti che utilizzano prevalentemente modalità attivanti di attaccamento hanno confini di identità più labili e tendono a instaurare relazioni molto intense, alternando momenti di ipervalutazione a svalutazione intensa. I pazienti più distanzianti invece tendono al distacco dagli altri e a sviluppare, soprattutto nei momenti di stress, conflitti tra evitamento e coinvolgimento. Queste dinamiche interpersonali e gli stili di attaccamento sottostanti sono trasversali rispetto a contesti sociali e dimensioni temporali differenti. Perciò, pur non esplicitando l’interpretazione del transfert, l’IPT si focalizza, quando necessario, sulla comunicazione tra terapeuta e paziente. L’analisi della comunicazione consente di rintracciare e analizzare, in maniera più vivida rispetto alla narrativa, le modalità comunicative del paziente con gli altri, permettendogli di elaborarne di alternative. Soffermarsi sulle problematiche di un conflitto sorto all’interno della coppia terapeutica stimola la capacità del paziente di comprendere le proprie emozioni e modificare i propri stili interpersonali.

Per molti aspetti tale modello concorda con quello precedentemente elaborato da Markowitz, con il quale Bateman condivide l’attenzione posta sulla cronicità del disturbo e sulla conseguente egosintonicità della sintomatologia. Inoltre, poiché i pazienti cronici tendono a identificarsi con il loro malessere, anche Bateman considera la terapia una “transizione di ruolo iatrogena” che consente una graduale scissione del paziente dal sintomo.

Tuttavia Bateman, a differenza di Markowitz, ritiene necessario un focus aggiuntivo, che colga la relazione causale e temporale tra sintomo ed eventi interpersonali. Tale focus, ricavato dall’analisi del mondo interpersonale del paziente è il “Sè in relazione agli altri”.

Il DBP è stato concettualizzato come un disturbo dell’identità (Skodol, 2011), che si mostra particolarrmente vulnerabile nell’ambito di situazioni relazionali impegnative e in momenti di forte emotività. In tali circostanze, il paziente borderline tende a perdere la capacità di distinguere il proprio stato mentale, il proprio Sè, da quello dell’altro. L’attaccamento disorganizzato invalida infatti la capacità di formare rappresentazioni dello stato mentale proprio o altrui (capacità riflessiva, mentalizzazione, metacognizione). Ciò determina una disordinata organizzazione del Sè e una rudimentale capacità di pensare ai comportamenti in termini di stati mentali corrispondenti (Bateman, 2012). Compito dell’IPT, secondo Bateman, è dunque da un lato di porre in relazione la percezione dell’identità con il contesto interpersonale all’interno del quale essa viene perduta, dall’altro di aiutare a sviluppare una gestione delle emozioni più adattiva, allo scopo di prevenire la crisi dell’identità. Viene chiesto al paziente di porre attenzione, durante le interazioni sociali, alla propria esperienza ma anche a quella dell’altro. Ogni seduta si apre con l’analisi delle dinamiche interpersonali significative avvenute nella settimana precedente, seguita da un’analisi degli stili comunicativi, quando necessaria. Solo se il paziente riuscirà a sentire che le azioni, proprie e altrui, sono prodotte da precisi desideri, emozioni e convinzioni, potrà sviluppare una maggior consapevolezza degli stati mentali, propri e altrui, e consolidare la propria identità.

Questo approccio riprende e sviluppa il concetto di mentalizzazione, intesa come capacità di pensare il proprio stato mentale e quello degli altri come separati e determinanti nella genesi dei comportamenti (Bateman e Fonagy, 2004). Secondo gli Autori è l’atteggiamento mentalizzante l’elemento efficace di tutte le terapie del DBP.

Bateman concorda con Markowitz sulla necessità di prevedere e gestire efficacemente il rischio suicidiario. Innanzitutto il paziente deve essere seguito in psicoterapia all’interno di un servizio psichiatrico adeguato e le crisi suicidiarie devono essere affrontate con un intervento di assistenza straordinaria. L’approccio interpersonale consente di evidenziare la relazione esistenze tra autolesionismo, suicidiarietà e contesto sociale, mantenendo l’attenzione del paziente sul suo stato affettivo e sulla percezione della propria identità nel momento stesso dell’interazione con l’altro. Come in altri approcci, è consentito un breve contatto telefonico con il terapeuta al momento della crisi, per esplorarne l’evento scatenante e negoziare una soluzione interpersonale.

Considerato nella prospettiva interpersonale, l’autolesionismo è un tentativo di raggiungere un equilibrio interno e di rinsaldare una relazione percepita come instabile. Ha un ruolo difensivo, pertanto resistente al cambiamento. Tuttavia, dal punto di vista relazionale è distruttivo, in quanto mina la stabilità e la spontaneità dei rapporti e ingenera sentimenti di vergogna nel paziente. La vergogna provata, a sua volta, altera la percezione dell’identità, minando l’autostima del paziente e amplificando l’autosvalutazione e la distorsione dei sentimenti. L’IPT esplora la triade relazioni interpersonali, identità e autolesionismo e aiuta il paziente a mettere a fuoco la consequenzialità esistente tra questi fattori con atteggiamento autoriflessivo.

La durata del trattamento con l’IPT è estesa da Bateman a 24 sedute. La conclusione della psicoterapia è un momento critico, in rapporto alle paure abbandoniche del paziente, e necessita di particolare cautela. In itinere devono essere rinforzati  i progressi effettuati, soprattutto in relazione al focus interpersonale, e la fine della terapia deve essere discussa in precedenza, in modo che sia vissuta dal paziente come evento programmato e non come un abbandono.

In conclusione, possiamo dire che l’obiettivo dell’IPT secondo Bateman è la strutturazione di un Sè più solido, che possa limitare l’instabilità psichica del paziente. Questo obiettivo viene perseguito attraverso un atteggiamento che favorisce la mentalizzazione e quindi aiuta il paziente a riconoscere il proprio stato mentale momento per momento, soprattutto durante la crisi, a metterlo in relazione temporale e causale con gli avvenimenti interpersonali e con gli stati emotivi, differenziandolo da quello dell’altro. Solo quando il paziente si sentirà rinforzato nella sua identità potrà gestire autonomamente e in maniera più adattiva le emozioni all’interno di relazioni interpersonali più funzionali.

Bibliografia

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